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Vertenza Napoli Servizi, la partecipata perde un’altra causa: annullati 5 atti transattivi

24 Maggio 2019


Vertenza Napoli Servizi, la partecipata perde un’altra causa: annullati 5 atti transattivi

Nuova sentenza sfavorevole per la società di Palazzo San Giacomo, che aveva assorbito i dipendenti di Napoli Sociale dopo i verbali di conciliazione, con i quali rinunciavano a diritti maturati con l’azienda in liquidazione. Il giudice del lavoro accoglie il ricorso di alcune operatrici sociali: “Nessuna soluzione di continuità tra i rapporti contrattuali”

Verbali di conciliazione della vertenza Napoli Sociale, Napoli Servizi soccombe ancora davanti al giudice del lavoro. Come già avvenuto in una sentenza emessa a marzo, il tribunale di Napoli ha accolto il ricorso di alcune ex dipendenti di Napoli Sociale, società in liquidazione del comune di Napoli, trasferite a Napoli Servizi. Le ricorrenti sono 5 operatrici sociali, assistite dagli avvocati Giuliana Quattromini e Fabio Valerio Coppola, e sostenute dalla “Rete e Soccorso per i Diritti”. Al centro della vicenda, gli atti transattivi firmati dalle dipendenti, prima dell’assunzione in Napoli Servizi, altra partecipata comunale. Le ricorrenti sostenevano che l’azienda avesse esercitato pressioni, facendole rinunciare all’inquadramento professionale e alle spettanze maturate nel rapporto con Napoli Sociale. Una sorta di accordo capestro, per poter essere assunte. Nella pronuncia del 23 maggio, il giudice del lavoro Maria Pasqualina Gaudiano ha annullato quei verbali di conciliazione, sottoscritti il 3 novembre 2016. Ha quindi dichiarato che il rapporto di lavoro è proseguito alle dipendenze di Napoli Servizi, senza soluzione di continuità. La sentenza afferma: l’amministratore di Napoli Servizi, Domenico Allocca, “aveva espressamente dichiarato che la mancata sottoscrizione della conciliazione avrebbe comportato il licenziamento e che era l’unica soluzione per continuare il rapporto lavorativo”. Un avvertimento anticipato da una lettera inviata dall’azienda alle operatrici sociali. “Evidente è – scrive il giudice – che il consenso alla sottoscrizione del verbale di conciliazione sia stato indotto dal comportamento del futuro datore di lavoro che, nella comunicazione esaminata, nella sostanza, minacciava la non prosecuzione del rapporto di lavoro in caso in cui le lavoratrici non avessero accettato di essere assunte ex novo con rinuncia alle garanzie”. Napoli Servizi e Napoli Sociale, inoltre, sono state condannate in solido al pagamento di 454 euro a ciascuna delle 5 lavoratrici. Napoli Servizi dovrà anche pagare loro le spese legali (3.500 euro complessivi), compensate invece tra le ricorrenti e Napoli Sociale.


Gianmaria Roberti

Articolo tratto da "il desk" Quotidiano indipendente



Il Tribunale annulla le conciliazioni di Napoli Servizi: “Le lavoratrici furono intimidite”


L’avvocato Giuliana Quattromini: “Sono necessari controlli serrati sugli atti transattivi, troppi abusi”

La sezione lavoro del Tribunale di Napoli ha annullato i  verbali di conciliazione sottoscritti all’Ufficio del Lavoro riguardanti il trasferimento del personale da Napoli Sociale a Napoli Servizi, entrambe aziende di proprietà del Comune di Napoli. Verbali impugnati da una quarantina di  lavoratrici che accusarono l’azienda di aver esercitato pressioni, estorto il loro consenso, minacciato il licenziamento per rinunciare all’inquadramento professionale, alle spettanze salariali precedentemente maturate. Le lavoratrici, sostenuti dalla “Rete e Soccorso per i Diritti”, difesi dall’avvocato giuslavorista Giuliana Quattromini presentarono i ricorsi al Tribunale del lavoro. “Con la presente impugniamo ex articolo 2113 codice civile i verbali da noi sottoscritti nel novembre 2016 con le società Napoli Sociale e Napoli Servizi “ – evidenziarono i lavoratori  in una nota inviata all’azienda – Impugniamo detti verbali anche perché per più versi discriminatori, nulli per violazione di norme imperative, in frode alla legge e affetti da motivo illecito unico e determinante, oltre che da annullarsi per vizi della volontà”. Il 14 febbraio scorso è stata emanata la prima sentenza favorevole riguardante 4 lavoratrici alle quali è stato riconosciuto il proseguimento del rapporto di lavoro alle dipendenze di Napoli Servizi senza soluzione di continuità ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile. Napoli Servizi, difesa dall’avvocato Nunzio Rizzo, è stata condannata a pagare le spese processuali.

Il giudice designato  Giovanna Picciotti con la  sentenza n.25855/2017   ha ritenuto che “la prova della coazione diretta ad estorcere il consenso delle lavoratrici alla sottoscrizione della conciliazione sia emersa sia dall’istruttoria svolta, ma ancora prima, dalla stessa documentazione agli atti. Assume rilevanza fondamentale, a tale fine, il contenuto della comunicazione di Napoli Servizi in vista della futura stipula del contratto di assunzione – scrive il giudice –  In essa si legge che la proposta di assunzione alle proprie dipendenze è subordinata all’accettazione da parte delle lavoratrici di determinate condizioni, tra cui,  la rinuncia a d azioni dirette e o di natura solidaristica relative al rapporto intercorso con Napoli Sociale; che l’assunzione stessa e le condizioni ivi indicate avrebbero dovuto essere trasposte in un verbale di conciliazione articolo 411 codice procedura civile”. Significativa la testimonianza di una lavoratrice. “La teste ha, poi, riferito che l’amministratore di Napoli Servizi, in occasione dell’incontro presso l’ufficio del lavoro, aveva espressamente dichiarato che la mancata sottoscrizione della conciliazione avrebbe comportato il licenziamento – continua il giudice – E la circostanza è meramente confermativa della volontà di Napoli Servizi già espressa nella inviata alle lavoratrici. Per tale ragione a poco vale che il teste indotto dalla difesa della Napoli Servizi l’abbia espressamente negata pur riconoscendo che le lavoratrici ben conoscevano il contenuto del verbale di conciliazione che gli era stato rappresentato con la lettera di cui si è detto. E’, infatti, proprio il tenore di tale comunicazione che tradisce il comportamento indirettamente, ma chiaramente, intimidatorio – sottolinea il giudice – Francamente evidente è che il consenso alla sottoscrizione del verbale di conciliazione sia stato indotto dal comportamento del futuro datore di lavoro che, nella comunicazione esaminata, nella sostanza, minacciava la non prosecuzione del rapporto di lavoro in caso in cui le lavoratrici non avessero accettato di essere assunte ex novo con rinuncia alle guarentigie dell’articolo 2112 del codice civile”. Alla luce delle considerazioni espresse, “i verbali di conciliazione vanno, in definitiva, annullati per difetto del requisito del consenso ex articolo 1427 e 1435 del codice civile, perché mai le lavoratrici avrebbero sottoscritto il verbale di conciliazione se non indotte dalla minaccia di non potere altrimenti continuare a lavorare. In via ulteriore, va dichiarata la prosecuzione del rapporto di lavoro delle ricorrenti alle dipendenze di Napoli Servizi con riconoscimento della tutela di cui all’articolo 2112”.

La sentenza è una pesante tegola che si è abbattuta sulla Napoli Servizi, società di proprietà del Comune di Napoli, azienda pubblica che dovrebbe svolgere un esemplare ruolo di garante per il rispetto delle norme contrattuali, dell’etica e della responsabilità sociale. E’ una pesante tegola che si è abbattuta sulla giunta comunale di Napoli guidata da Luigi de Magistris che ha avallato i verbali di conciliazioni e gli atti transattivi redatti dalle sue aziende partecipate ignorando la dignità, dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Un ruolo di primo piano nella stesura degli atti transattivi fu assunto da Attilio Auricchio, Capo di Gabinetto, eminenza grigia di Palazzo San Giacomo.   E’ una pesante tegola che si è abbattuta anche sulle organizzazioni sindacali confederali e di categoria che continuano a legittimare con disinvoltura transazioni e conciliazioni trasformandosi in “uffici notarili e di consulenza”,  ignorando la volontà dei lavoratori dimenticandosi di svolgere il ruolo di associazioni di rappresentanza sociale. Sono centinaia gli  atti transattivi, le conciliazioni che vengono sottoscritti, senza adeguata trasparenza e un valido sistema di regole, presso gli uffici del lavoro, le sedi sindacali, le associazioni imprenditoriali. Atti transattivi che spesso finiscono nel mirino  della magistratura e della guardia di finanza. Recentemente a causa di un atto transattivo sono scattate le manette per il capo degli ispettori del lavoro di Napoli e della Campania. I lavoratori coinvolti nelle conciliazioni non sono tutelati,  mancano le regole, bisognerebbe stabilire delle soglie minime e massime quando si presentano le proposte alle controparti.  Invece, spesso i lavoratori sono costretti a firmare accordi transattivi rinunciando al 70-80 per cento delle loro spettanze. E non solo. In mancanza di regole, le conciliazioni e gli atti transattivi possono alimentare e favorire anche forme di corruzioni.

Puntuali e significative le dichiarazioni dell’avvocato Giuliana Quattromini(nella foto):“Spesso,  abbiamo  verificato  che gruppi di associazioni, consulenti senza scrupoli e  organizzazioni sindacali depositano centinaia di conciliazioni, conciliando persino su diritti indisponibili, per esempio sui contributi – afferma Quattromini –  Vanno fatti controlli serrati sulle conciliazioni e su chi le fa.  Ma la denuncia politica non basta, se i lavoratori non crescono in coscienza e cultura e restano succubi in una sudditanza psicologica di faccendieri di ogni risma”.


Ciro Crescentini

Articolo tratto da "il Desk"  quotidiano indipendente


Il c.d. tempo tuta deve essere retribuito

Il lavoratore ha diritto a vedersi retribuito il tempo impiegato per indossare e dismettere gli abiti da lavoro

 

La questione della retribuibilità dei tempi utilizzati per indossare e dismettere gli abiti azinedali è da anni affrontata dalla giurisprudenza. Essa è suffragata da costante giurisprudenza della Suprema Corte, oltre che, ormai, anche dei giudici di merito, secondo cui sono da considerarsi come tempo effettivo di lavoro – e, come tali, da retribuire - le attività, preparatorie o successive allo svolgimento dell’attività lavorativa, eterodirette dal datore di lavoro, fra le quali deve ricomprendersi anche il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, qualora il datore di lavoro, ne disciplini il tempo e il luogo di esecuzione (Cass. 31.1.2011 n. 2135, Pres. Roselli, Est. Stile; Cass. 10.9.2010 n. 19358, Pres. Roselli, Est. Di Nubila; Cass. 2.7.09 n. 15492, Pres. Mattone, Est. Vidiri; Cass. 22.7.08 n. 20179, Pres. Senese, Est. Miani Canevari; Cass. 21.10.2003 n. 15734, Pres. Mileo, Est. De Matteis; Cass. 14.4.98 n. 3763, Pres. Mileo, Est. D’Angelo).

La questione del netto/lordo

Il pagamento di arretrati retributivi, a seguito di sentenza di condanna, va effettuato al lordo di ritenute fiscali e previdenziali



La società che viene condannata a pagarearretrati retributivi, a qualsiasi titolo, devecorrispondere al lavoratore le somme lorde e non nette. 

E' costante, in tal senso, l'orientamento della Suprema Corte nell'affermare il principio secondo cui il datore di lavoro condannato al pagamento di differenze retributive non può operare ritenute fiscali e previdenziali.  

I giudici di legittimità hanno tratto tale convincimento dalla considerazione secondo cui il datore di lavoro può operare come sostituto d’imposta soltanto quando paga le retribuzioni alla loro naturale scadenza e non anche quando vi provvede solo dietro ordine giudiziario (come accaduto nella fattispecie).  

Poiché le ritenute fiscali attengono al distinto rapporto di imposta fra il lavoratore e l’amministrazione finanziaria (e non certo fra il lavoratore ed il datore di lavoro), ogni questione relativa al loro pagamento, alla loro debenza e/o al loro ammontare appartiene esclusivamente alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie, esclusa qualsivoglia cognizione incidenter tantum del Giudice ordinario; in forza dei rilievi che precedono, quando il Giudice ordinario (che sia giudice della cognizione o dell’esecuzione) liquida emolumenti di natura retributiva a favore del lavoratore, deve farlo sempre e soltanto al lordo e non al netto delle ritenute fiscali, non potendo egli interferire sul predetto rapporto d’imposta; sempre in virtù delle considerazioni di cui innanzi, il datore di lavoro - non essendo più sostituto di imposta in casi come il presente - non ha più alcuna legittimazione ad operare le ritenute fiscali e, per lo stesso motivo, non è neppure legittimato ad agire in via giudiziaria riguardo ad esse. 

Licenziamento disciplinare: casi di nullità

Il licenziamento disciplinare è nullo in caso di mancata audizione del lavoratore che ne faccia richiesta, anche ove abbia già fornito difese scritte.



In caso di licenziamento disciplinare il datore di lavoro deve consentire, al lavoratore che ne faccia richiesta, di essere sentito di persona con l’assistenza sindacale e ciò anche nel caso in cui siano già state presentate delle difese scritte.

E' principio noto in giurisprudenza che il procedimento disciplinare è nullo se al lavoratore che l’abbia richiesto non viene consentito di esporre a voce, con l’assistenza d’un rappresentante sindacale, le proprie difese anche allo scopo di integrare quelle già fornute.

Principio ormai da lungo tempo acquisito nella giurisprudenza della Corte Suprema, secondo cui l’art. 7 commi 2° e 3° legge n. 300/70 devono essere interpretati nel senso che il lavoratore è libero di discolparsi nelle forme da lui prescelte - e, quindi, per iscritto e/o a voce, con l’assistenza o meno di un rappresentante sindacale - con la conseguenza che, ove il lavoratore eserciti il proprio diritto chiedendo espressamente di essere sentito a propria difesa (come avvenuto nel caso di specie), il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione, pena l’illegittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare.

In altri termini, la giurisprudenza della S.C. ha ormai da lungo tempo superato il diverso orientamento secondo cui, ove si ritenga ormai compiutamente espletata la difesa nella lettera di controdeduzioni, sarebbe legittimo rifiutare al lavoratore la pur chiesta possibilità di una difesa orale con assistenza di sindacalista di fiducia.

 D’altronde, non può il datore di lavoro arrogarsi il diritto di stabilire unilateralmente se il suo contraddittore (vale a dire il dipendente assoggettato a procedimento disciplinare) abbia esercitato o meno compiutamente il diritto di difesa (pena un’eclatante alterazione del principio di parità delle parti ed attribuzione al datore di lavoro d’un potere privato che nessuna norma di legge gli conferisce).

Né può farlo il Giudice ex post (vale a dire nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento), attraverso una sorta di invalidazione successiva sconosciuta nel nostro ordinamento, per di più senza poter disporre d’un oggettivo metro di giudizio, ma avvalendosi soltanto delle proprie personalissime sensazioni.

Né può dirsi che le difese sono equivalenti se poi, nel corso del giudizio, non vengono sollevate eccezioni diverse da quelle già accennate nella lettera di controdeduzioni: infatti, la questione non risiede soltanto nel tipo di eccezioni e difese fatte valere dal lavoratore in sede di iter disciplinare e, poi, di giudizio, bensì nella possibilità di una più accurata loro illustrazione anche mediante il ricorso ad esempi, argomenti logici e lecite tecniche di persuasione che, per loro natura, non sempre possono compiutamente espletarsi con la mera scrittura.

E di ciò testimonia lo stesso tenore letterale dell’art. 7 co. 2° Stat, laddove parla di divieto di adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore “…senza averlo sentito a sua difesa” (là dove l’uso del verbo “sentire” evoca proprio un’audizione orale più che una mera giustificazione scritta).

Ulteriore ragione per cui non è vero che eventuali difese scritte redatte dal lavoratore esauriscano il diritto ad una difesa orale risiede nel rilievo che ex art. 7 co. 3° Stat. quest’ultima può essere svolte, su apposita richiesta del lavoratore, con l’assistenza d’un sindacalista di sua fiducia, sindacalista che può difendere il lavoratore non solo occupandosi delle circostanze della singola contestazione disciplinare, ma anche avendo riguardo più in generale all’atteggiamento tenuto dall’azienda in casi similari e alla valenza anche sul terreno delle relazioni industriali di determinate condotte datoriali.

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